
Anche le ultime amministrative confermano la lenta e progressiva fuga dell’elettorato moderato dal centrodestra. Poco importa se i voti della Lega di Matteo Salvini hanno imboccato la strada della transumanza verso il partito di Giorgia Meloni. E’ sempre la destra storica che si muove da un campo all’altro cambiando semplicemente maglia: quella della caccia al nero e della pistola sul comodino. Quelli che: prima gli italiani, poi gli altri. Avvertimento che vale anche per l’Europa. Quelli che guardano alle partite Iva e diffidano delle sigle sindacali. Un tete a tete dal quale è sempre più escluso il “povero” Berlusconi, al quale sono rimasti pochi e spuntati argomenti per convincere l’elettorato di centrodestra ad orientare il consenso verso gli azzurri. Uno di questi – totem arcoriano da 26 anni – è l’abbassamento delle tasse, a cui non crede però più nessuno. Primo: perché neanche il Cavaliere è mai riuscito a vincere compiutamente la sua battaglia con il fisco, nonostante i buoni propositi. Secondo: perché oggi la vera priorità del Paese è il lavoro che non c’è, non i problemi con l’Irpef di chi la busta paga la prende ogni mese. Così a guadagnarci è l’altro campo di gioco, il centrosinistra, dove a rassicurare i moderati c’è il Pd del serafico Nicola Zingaretti, i partitini minori di Renzi e Calenda che ammiccano a chi vorrebbe smarcarsi sia dalla destra che dalla sinistra. Ma soprattutto c’è lui: Giuseppe Conte, oggi forse il più amato dagli italiani, che un partito non ce l’ha ma potrebbe averlo presto. Ed è molto probabile che se il Pd è tornato a essere il primo partito in Italia, molto di questa sorprendente rimonta (alle politiche del 2018 aveva toccato minimi storici) la debba proprio al presidente del Consiglio in carica. Che adesso sembra avere la strada spianata fino al 2023, con la ragionevole certezza che anche il Parlamento possa concludere la legislatura senza particolari scossoni. Poi si vedrà. Perché in due anni, come abbiamo visto, può accadere di tutto. La gestione dell’emergenza sanitaria e dei 209 miliardi del Recovery fund saranno un banco di prova decisivo per il governo giallo-rosso, dove c’è però un’altra questione urgente da risolvere: il destino del M5s, che con lo strappo alle regionali dall’alleato di governo ha impedito che un insperato 3-3 potesse addirittura trasformarsi in un sorprendente 4-2 per il centrosinistra, se solo nelle Marche la pattuglia di Vito Crimi e Luigi Di Maio non avesse deciso di consegnarsi alla irrilevanza. (s.o.)